Storia di Bogli e della Val Boreca

L’insediamento dell’uomo in questi territori è testimoniato dal ritrovamento di alcuni reperti preistorici risalenti al Neolitico (5000-2800 a.C.). Intorno all’anno 1000 a.C., le popolazioni liguri hanno iniziato la colonizzazione dell’entroterra collinare e montuoso, insediandosi nei preesistenti villaggi dell’età del Bronzo (2300-1100 a.C.), arrivando a controllare, nell’arco di cinque secoli, un vastissimo territorio: dal fiume Varo al Serchio verso il Tirreno, tutto l’arco dell’Appennino settentrionale e buona parte della Pianura Padana, dal Piemonte fino alla Valle del Rodano. Tra il V e il IV secolo a.C., la Pianura Padana viene invasa delle popolazioni celtiche, tra le quali ricordiamo gli Insubri e i Galli Boi, costringendo le popolazioni liguri a ritirarsi nelle zone interne dell’Appennino. Solo pochissimi reperti archeologici testimoniano la loro presenza in queste zone, tuttavia, osservando la toponomastica locale, si trovano molti indizi che, pur non costituendo una prova certa, sono assai indicativi:

Le popolazioni della Gallia Cisalpina nel III secolo a.C.

Le popolazioni della Gallia Cisalpina nel III secolo a.C.

– la Tavola di Veleia, risalente al periodo di Traiano (99-117 a.C.) recensisce il  “saltus Boielis” (salto dei Boi) che corrisponde forse al primitivo nome del monte Penice. Lo stesso nome “Penice” deriva dal celtico “penn” che significa “colle”.
– la radice “Boi” fu trasformata dai liguri in aggettivo con il suffisso “el”, per poi denotare vari luoghi, siano essi torrenti o insediamenti, e cambiando gradatamente nel tempo con l’involgarimento e la contaminazione della lingua (Boi, Boielis, Bouium, Bovium, Bobium). Lo stesso nome di Bogli rimanda dunque a una probabile origine celtica.
– il nome dei torrenti Dorba e Dorbida deriverebbe dalla radice celtica “dubro”, che significa “acqua”.

I Celti e i Liguri hanno quindi convissuto per almeno altri due secoli in queste terre, prima che queste diventassero uno dei teatri di quella che, dato il coinvolgimento di tutte le civiltà più fiorenti del mondo conosciuto di allora, poteva essere considerata alla stregua di una Guerra Mondiale: la Seconda Guerra Punica. La situazione agli inizi del III secolo a.C. era la seguente:

– le popolazioni celtiche (Galli) si erano ormai spinte fino all’Adriatico, controllando l’intera pianura Padana e buona parte dell’Appennino Settentrionale, alleandosi poi con i Liguri (con cui avevano già avviato floridi rapporti commerciali), temendo entrambi la contro-avanzata di Roma.
– gli avamposti militari Romani nelle colonie di Cremona e Piacenza erano in allerta per tenere sotto controllo l’avanzata dei Galli e preparare una controffensiva.
– gli avamposti militari Romani a Genova servivano per il controllo sia dei traffici portuali sia dei Liguri, che avevano perso il loro porto più importante, ma occupavano ancora un vasto territorio.

Dopo la battaglia di Clastidium (oggi Casteggio, 222 a.C.) contro i Galli Insubri, Roma arrivò a occupare gran parte della Pianura Padana e le popolazioni celtiche dovettero trovare riparo sulle montagne. E’ infatti probabile che una parte di Galli Boi si fosse rifugiata nelle valli dell’attuale territorio delle Quattro Province. Quando nel 218 a.C. Annibale partì da Cartagena in Spagna (e questo già denota come i Cartaginesi amassero assegnare nomi familiari ai luoghi occupati) con un esercito di centomila uomini, conosceva bene le situazioni di conflittualità latente presente sul territorio che voleva attraversare e sperava di trarne vantaggio.

Annibale varca le Alpi con gli elefanti

Annibale varca le Alpi con gli elefanti

Valicate le Alpi e vinta la prima battaglia contro i Romani nei pressi di Vigevano (Battaglia del Ticino), Annibale si diresse verso l’Appennino, dove intendeva sistemarsi per l’inverno, prima di sferrare il secondo attacco, più imponente e decisivo: la Battaglia del Trebbia, combattuta nelle zone di Rivalta e Niviano.

La leggenda narra che Annibale, per orientarsi e decidere dove sarebbe stato meglio accampare le truppe, salì in cima a un monte e che, durante il tragitto, si ferì ad una mano: la “lesa manus” diede il nome a quello che oggi tutti conosciamo come Monte Lésima, e la mulattiera che percorse è nota a tutti gli abitanti della zona come “Strada di Annibale”. La stessa leggenda vuole che alcuni disertori dell’esercito di Annibale (si narra che nella Battaglia del Trebbia siano morte più di trentamila persone ed è dunque probabile che qualcuno ne sia rimasto “impressionato” e abbia tagliato la corda) si siano rifugiati in Val Boreca e nei territori limitrofi, per poi sposarsi e unirsi alle popolazioni locali. Plausibile anche questo, ma non è l’unica teoria.

Alcuni, infatti, ritengono che la toponomastica locale sia dovuta all’insediamento, per almeno due anni, delle truppe di Magone Barca, un fratello minore di Annibale. Sebbene meno conosciuto, contribuì non poco alle vittorie cartaginesi: nella Battaglia del Trebbia ebbe un ruolo decisivo, sferrando il colpo di grazia ai Romani (già in ritirata) sorprendendoli alle spalle, poi ebbe ruoli strategici nelle celebri quanto vittoriose Battaglie di Trasimeno e Canne.

Annibale Barca

Annibale Barca

Non vogliamo qui dilungarci sui dettagli, peraltro avvincenti, del corso della guerra poiché poco inerenti alla storia del nostro territorio, ma è interessante capire gli spostamenti di Magone in quanto questo condottiero potrebbe essere il fautore della più lunga permanenza cartaginese in Val Boreca. Nel 209 a.C., approfittando del fatto che Annibale, pur essendosi spinto fino in meridione, rinunciò per ben due volte all’attacco decisivo alla Città Eterna, Roma rialzò la testa, rallentò l’avanzata cartaginese e, senza farsi gli scrupoli del suo rivale, incaricò Publio Cornelio Scipione di andare a prendersi Cartagine, ma senza distruggerla (questo punto del programma sarà ridiscusso in occasione della terza e ultima guerra punica, quella del “Cartago delenda est”), per poi riconquistare tutte le terre che i cartaginesi avevano occupato durante il loro cammino verso l’Italia. Scipione, soprannominato in seguito “africano”, prima della conclusiva e vittoriosa Battaglia di Zama (202 a.C.), cominciò a far arretrare Annibale costringendolo ad arroccarsi nel Bruzio, per poi scatenare l’offensiva nei territori spagnoli.

Magone venne quindi dapprima inviato da Annibale a Cartagine per avere garanzie dagli alleati e ad organizzare i rinforzi per il fratello, poi in Spagna a cercare di contrastare Scipione e infine, dopo essersi rifugiato alle Isole Baleari per leccarsi le ferite, gli fu assegnato l’incarico di impedire, con il supporto di Liguri e Celti, la controffensiva di Roma nei territori liguri e padani. Certamente di umore pessimo, nel 205 a.C. partì dalle Baleari alla volta di Genova, federata a Roma, mettendola a ferro e fuoco e saccheggiandola, portando il bottino nel porto di Savona, ancora in mano ai Liguri. La distruzione fu tale che molti ritengono che l’espressione “avere il magone” (sinonimo di sofferenza, peso sullo stomaco) abbia a che fare con il profondo dolore radicatosi nella memoria dei genovesi in seguito a questi eventi , altri invece attribuiscono a tale espressione un’origine più popolare, in quanto il “magone” è anche il ventriglio del pollo o uno stomaco del bovino, e a questi viene associato quella sensazione di malessere che prende le viscere.

Non è ben chiaro che cosa fece esattamente Magone dopo questo colpo a sorpresa, ma è quasi certo che si stabilì con i Liguri per due anni. Molti ritengono che, oltre ad appoggiare i Liguri contro gli Epanteri (una tribù ligure ma affiliata ai Romani), cercò di ingrandire il proprio esercito, e Tito Livio ci dice che, giacché lui e il fratello godevano ormai di grande reputazione, Galli e Liguri giungevano da ogni parte per unirsi alle sue truppe contro il potere di Roma. Per addestrare i nuovi rincalzi aveva certamente bisogno di un luogo isolato e facilmente controllabile, onde evitare attacchi a sorpresa dei Romani. Non è dato sapere con certezza dove stabilì il suo Quartier Generale ma, anche in questo caso, la toponomastica fornisce una serie d’indizi che portano certamente in Val Boreca. E’ molto probabile che Magone si ricordasse di queste zone, attraversate più di un decennio prima, e di quanto fossero strategicamente utili ai propri scopi. Vediamo gli indizi, tenendo in considerazione quanto i Cartaginesi ci tenessero a ribattezzare i luoghi occupati con nomi di gloriose città cartaginesi, probabilmente per sentirsi (o far sentire le truppe) meno lontani da casa: in fondo, anche nei flussi migratori nel Nuovo Mondo, ritroviamo la stessa pratica nelle popolazioni europee. Per difendere e vigilare la zona prescelta ed evitare sorprese dall’esterno e diserzioni dall’interno, Magone pone posti di guardia agli imbocchi più importanti della Val Boreca: da Djerba (oggi Zerba) controlla tutta la Val Trebbia e da Kartago (oggi Tartago) chiude l’imbocco della valle.

Dalla Torre di Zerba si poteva controllare tutta la Val Trebbia

Dalla Torre di Zerba si poteva controllare tutta la Val Trebbia

Sulla strada che porta verso le navi, lasciate ancorate a Savona, il posto di guardia si chiama Cartagena (oggi Cartasegna), mentre altri posti di difesa sono collocati a Barchi (la stirpe di Annibale, Asdrubale e Magone, come tutti sanno, è quella dei Barca), mentre sul roccioso costone che porta al monte Antola in direzione di Genova, il posto di guardia si chiama stranamente Casa del Romano. Accampamenti per il soggiorno dei soldati e per le attività militari sono dislocati a Bouge (oggi Bogli) e Scusse (oggi Suzzi), mentre le manovre campali e le esercitazioni si svolgono presumibilmente, essendovi terreni meno impervi, sui pascoli del Piano delle Armi (oggi Pian dell’Armà). Tra Bogli e Cartasegna c’è una località chiamata “il Castello” in cui si trovano le rovine di una torre circolare (purtroppo coperta da vegetazione e detriti) che assomiglia a quella di Zerba (restaurata poi dai Malaspina poiché era un punto d’osservazione strategico), entrambe risalenti al periodo pre-romano. Molte vie di collegamento sono state costruite e lastricate con una cura e un impiego di risorse che appaiono sproporzionate rispetto all’utilizzo attuale.
Aggiungiamo il ritrovamento di alcune zanne d’elefante e, se più indizi spesso fanno una prova, possiamo ritenere molto probabile che furono i soldati cartaginesi a costruire i loro accampamenti fortificati, spianando aree, alzando muri, tagliando piante e aprendo strade e sentieri che uniscono tra loro i vari siti. Di conseguenza, i luoghi che prima si presentavano solo con boschi o costoni disabitati, diventarono in seguito nuclei con il proprio nome.

I numerosi riferimenti ad Annibale che si trovano in zona, vanno dunque attribuiti a Magone, il quale, seppure meno famoso dell’invincibile fratello, è tuttavia un grande generale, figlio e fratello di generali che porta con sé una flotta di navi da guerra, un esercito di fanti e di cavalieri, e che di dispone addirittura di elefanti da guerra giunti appositamente da Cartagine con una spedizione di rinforzo approdata in Liguria. Magone quindi può essere identificato dalle popolazioni locali come Annibale, paladino depositario delle speranze di tutti i nemici di Roma. Questa non restò a guardare, rafforzando le proprie truppe finché, nel territorio degli Insubri (nord-Lombardia), si svolse lo scontro tra le forze celtico-liguri-cartaginesi, guidate da Magone, e quelle romane, guidate dal pretore Quintilio Varo e dal proconsole Mario Cornelio: dopo una lunga parità, i punici cominciarono a cedere e Magone, portatosi in prima linea (allora era un gesto di valore, oggi è strategicamente stupido), cadde da cavallo trafitto ad una coscia, e quella che era già una ritirata si trasformò in pesante sconfitta.

Gravemente ferito, Magone riuscì a racimolare i superstiti e ad imbarcarsi per Cartagine per aiutare il fratello Annibale contro il determinatissimo Scipione, ma morì (presumibilmente rimpiangendo la tranquillità della Val Boreca) per l’aggravarsi della ferita alla gamba, appena dopo aver superato la Sardegna. Dopo aver assaporato la Storia con la “S” maiuscola, per il nostro territorio cominciò l’epoca Romana, che durò fino alla caduta dell’Impero d’Occidente (476 d.C.) sebbene, già dalla fine del IV secolo, iniziarono le invasioni barbariche. L’influenza romana ebbe una certa importanza in quanto, com’era loro abitudine nei territori occupati, portò ad un rinnovamento delle infrastrutture, in particolare le preesistenti fortificazioni e la rete stradale, per motivi strategico-militari e, soprattutto, per favorire i commerci. Anche le Vie del Sale (e una di queste attraversa la Val Boreca), già utilizzate nei secoli precedenti, furono adattate ai sempre maggiori traffici commerciali tra la costa ligure e le zone padane. Del periodo Romano troviamo inoltre una quantità di reperti archeologici, rovine e manufatti, notevolmente superiori rispetto a quelli delle epoche precedenti e questo è ben comprensibile se consideriamo quanto fosse avanzata questa civiltà rispetto alle altre e la durata di circa sei secoli di controllo del territorio.

Già in epoca Romana, il Cristianesimo, ormai anche qui largamente diffuso grazie all’evangelizzazione di monaci pre-Benedettini come San Ponzo, comincia a esercitare il suo potere e la sua influenza su tutto il territorio. Uno dei centri più influenti era sicuramente l’Abbazia di San Colombano, un monastero fondato a Bobbio dal Santo irlandese nel 614. Colombano, che già aveva fondato altri centri monastici in Francia, era molto ben visto dalla principessa Teodolinda, in seguito regina dei Longobardi, per la sua opera di mediazione tra la Corte e la Sede Apostolica.

Chiesa di San Marziano a Bogli, costruita nel 1655

Chiesa di San Marziano a Bogli, costruita nel 1655

Gli venne dunque concesso di fondare un nuovo centro monastico a Bobbio, dopo un sopralluogo che vide la stessa principessa raggiungere la cima del Monte Penice. Colombano morì solo due anni dopo dalla fondazione, ma i suoi successori diedero inizio a una vera e propria espansione economica e culturale del territorio. Il processo di civilizzazione che i monaci hanno portato nelle valli è innegabile, sebbene questi affermassero spocchiosamente che, prima del loro arrivo e della loro opera di evangelizzazione, questi luoghi fossero abitati esclusivamente da selvaggi. Dopo la caduta dei Longobardi per opera di Carlo Magno, il Sacro Romano Impero costituisce i Feudi Imperiali: nell’epoca feudale, la Val Boreca (come tutto il nord-Italia, del resto) ha cambiato bandiera parecchie volte ma dato che, per mantenere il controllo del territorio, ci si accordava con la Chiesa, l’influenza dei monaci si è protratta per secoli, con l’avvicendamento di altre Diocesi a quella di Bobbio, tra le quali la più duratura è stata certamente Tortona.

Nel 1164 Federico Barbarossa concesse questi territori ai Malaspina, nel XIII secolo passarono sotto il Marchesato di Pregola, nel XIV alle famiglie Pinotti e Pozzi, per poi tornare all’ovile dei Malaspina nel 1404. Nel XVII secolo Bogli (che allora contava ben 32 “fuochi” = nuclei familiari) si trovava tra i possedimenti dei Doria e fu nel 1655 che questi costruirono la Chiesa di San Marziano (patrono di Tortona) come parrocchia comprendente anche Artana, Pizzonero e Suzzi. Nei primi anni del 1800 vi fu la soppressione del feudalesimo da parte dei francesi di Napoleone, che misero fine all’influenza dell’Abbazia di San Colombano, distruggendola in gran parte (quella odierna è ricostruita sulle sue rovine), e contrastarono apertamente il potere che la Chiesa esercitava sui feudi.
La nostra valle venne dunque annessa alla Provincia di Bobbio fino al 1859, quando, dopo la Seconda Guerra d’Indipendenza (contro l’Austria), entrò a far parte della Provincia di Pavia. L’annessione alla provincia di Piacenza fu invece sancita nel 1927 durante il ventennio fascista e da allora non ha più subìto modifiche.