L’IMPERO SI È FERMATO A BOGLI

Grazie Luigi….

“Questa storia la racconta Bardo, al secolo Rossi Giacomo. Se glielo chiedete, lui ve la dice meglio, con un’arguzia che qui si è indegnamente cercato di imitare. Il maestro probabilmente veniva – considerando il cognome Maffoni e, per chi ancora oggi si ricorda, la sua parlata – dalle parti tra Mulazzano e Bertonico o forse dalla Val Tidone. Quello che nel racconto dice il parroco non è invenzione. Basta andare a vedere la lettera che don Tacchini, il predecessore di don Silvio Sala, scrisse al suo vescovo e che si conserva ancora a Pej, con tutte le carte della chiesa che Cichìn – mai abbastanza ringraziato per questo – ha salvato dalla critica roditrice del tempo. Don Silvio finì poi a fare per qualche mese il cappellano in Russia e la sua storia militare tornò buona quando, di ritorno tra i Bogliesi, questi dovettero subire le gentilezze dei rastrellatori. Ma questa è un’altra storia. La lavagna deve essere ancora da qualche parte.”

Paesaggio3

Sul finire del mese di settembre di tanti anni fa – stiamo parlando degli anni trenta del secolo scorso, quando c’era ancora la scuola – arrivava in paese la nuova maestra. L’organizzazione scolastica dell’epoca, non diversamente da adesso, era costruita su un sistema di concorsi e di anzianità per cui, alla fine, ai più giovani toccavano sempre i posti più ingrati. Era quindi normale che a Bogli, considerato per il suo isolamento posto ingrato, venissero mandate le ragazze più giovani, appena sfornate dalla scuola magistrale.

Arrivavano in paese del tutto ignare di dove sarebbero andate a finire. Tanto ignare che una di queste, arrivata a Varzi col trenino, dopo aver chiesto a che ora sarebbe partita la corriera per Bogli, si sentì rispondere che avrebbe dovuto aspettare per un bel po’. Arrivò poi in groppa al somaro.

Venute per insegnare, si accorgevano in fretta che erano loro per prime a dovere imparare. Siccome venivano dal piacentino – a Piacenza stava il Provveditorato – dovevano farsi l’orecchio a quel difficile dialetto ligure parlato, senza nessun rispetto per le ripartizioni amministrative, dalla gente del posto. I giovanotti più intraprendenti prestavano volentieri il loro aiuto. Andavano alle lezioni serali, dove i più grandi ricevevano supplementi di istruzione e non di rado capitava che fossero loro ad insegnare alle ragazze, tanto che in poco tempo le figliole diventavano tutte un po’ più esperte.

Questa promiscuità tra maestra e giovanotti preoccupava non poco il parroco del paese. Noi non sappiamo se avesse torto o ragione ad essere così turbato ma comunque, presa carta e penna, scrisse due paroline al suo vescovo, firmandosi devotissimo don Silvio Sala. Le due parole scritte diventarono quattro nella lettera che il vescovo scrisse al provveditore. Così, là dove si prendono le decisioni, venne stabilito che a Bogli avrebbero insegnato soltanto maestri maschi.

Sul finire dell’anno XV dell’era fascista –– come a dire nel settembre 1937 – toccò al maestro Maffoni.
“E dov’è mai?” chiese all’impiegato che, con grafia chiara ed ornata, aveva scritto “Bogli di Ottone” sulla sua lettera d’incarico. Poi, con l’aria di chi stava volentieri allo scherzo: “Camerata, mi sapete dire dove sta codesto Bogli d’ottone?”. “Deve essere in montagna”, rispose l’altro in tutta serietà. “In montagna va bene, ma dove? E poi io voglio un Bogli d’oro, non d’ottone”. Non era uno scherzo. La Carta d’Italia al 250.000, che il Touring Club Italiano aveva da poco pubblicato, era molto chiara. Ottone esisteva davvero, con tutte le sue frazioni e le sue strade. Lasciava però all’intuizione del turista indovinare che, per arrivare alla frazione Bogli, da Ottone ci voleva mezza giornata di mulo.

Il segretario, interpellato per vedere se, dato che il maestro vantava alcuni anni di anzianità, fosse per caso possibile spostare, magari rinviare, tagliò corto con le sue richieste: veniva spedito lì per espressa volontà del Provveditore e che se ne facesse una ragione. Poi era anche questione di opportunità politica: in quel paese, considerato di tiepida fede, c’era grande bisogno della sua fermezza fascista. Era ancora giovane e gagliardo, di fronte al dovere c’era solo da obbedire e che si scordasse gli svaghi della città.

In effetti, anche se non giovanissimo, il maestro Maffoni era conosciuto per essere un vulcano di energia. La sua fede ardente lo sorreggeva in ogni circostanza. E voi nemmeno immaginate quanto potesse essere ardente un cuore fascista, prima che cominciasse la guerra. Così, scattato sull’attenti davanti al camerata segretario, alzò il braccio per salutare e si preparò a partire.

Venuto giù da cavallo del suo somaro, dopo avere percorso il ripido sentiero che scendeva al paese, il maestro si sgranchì le gambe sotto il castagno davanti alla chiesa.11078177_1587663304849037_226404081902151002_o Prima di tutto bisognava salutare il parroco. Intanto qualche paesano che passava salutava con rispetto ma senza troppo scomporsi. I giovanotti guardavano delusi: “E’ il nuovo maestro!”, sentiva che bisbigliavano tra loro.

Partito da casa e rassegnato ad affrontare chissà quali difficoltà, il maestro – sarà stata l’aria frizzante o il sole che a fine settembre dà quel tono dolce alle ombre – scacciato in fretta perplessità e dubbi, sentì piano piano crescere dentro di sé l’orgoglio di essere lì, ad affrontare un compito così importante e così delicato. Era anche lusingato, questo va detto, di essere guardato con ammirazione dalle ragazze. Nei suoi gesti fermi e decisi si leggeva un’autorevolezza che non era sopraffazione, non era superbia.

Si sa che l’entusiasmo è in grado di trasfigurare le cose, che fa vedere tutto più grande e più bello, ma il paese gli piaceva davvero, non doveva fare fatica ad adattarsi. Scrisse subito a casa che lì sarebbe stato benissimo. Scrisse che per dire Bogli i paesani dicevano Bùj, pronunciando la U con un suono che suonava cupo con quella U tanto lunga, ma che il paese era tutt’altro che cupo! Era semmai un posto dove regnava divertimento ed allegria. Si cantava e ballava fino all’alba, cose che neanche i più moderni tabarin – che sarebbero le discoteche di allora – in città si sognavano. “Sarà bello”, si disse il maestro Maffoni.

E per loro, per i Bogliesi, cosa era bello? Alle ragazze, come dappertutto, piacevano i vestiti, i fazzoletti da mettere in testa, sentirsi guardate. Agli uomini piacevano i lavori ben fatti: era bello lo scajun, i sentieri e le strade, che erano incastri perfetti di pietra vicino a pietra. Erano belli i muri di sostegno degli orti, che non si capiva come facessero a reggere tanto peso senza traccia di cemento. Erano belli i prati, tagliati rasi e senza un ciuffo d’erba fuori regola, che li potevi misurare col centimetro. Erano belle le bestie, allevate con la cura e il rispetto che solo sa dedicare chi ne dipende per procurarsi il proprio cibo.

L'ingegner Massa con la turbina Pelton

“Massa” con la sua piccola turbina Pelton

Era bella la fioca luce che l’ingegner Massa era stato capace di dare al paese senza stare ad aspettare i tempi e i costi dell’amministrazione di qui o dell’amministrazione di là.

Era un’idea di bellezza che, apprezzando il lavoro fatto bene, si rivelava tutt’altro che retrograda, anzi era ben capace di apprezzare la modernità. In quel paese non mettevano radici le stanchezze, i languori e i cedimenti, tutti segni di decadenza sovversiva. Lì la gioventù era forte ed attiva. E se c’era ingenuità paesana, questa era pura poesia che faceva pensare agli antichi, ai pastori di Virgilio. Così come gli incastri di pietra delle strade e dei muri facevano pensare agli antichi Romani, così abili nel costruire.

Nei confronti dei Romani più nuovi, quelli delle sfilate e dei gagliardetti, la gente del paese, è vero, non sembrava invece manifestare straordinario entusiasmo. Oddio, niente di censurabile, tanto meno niente di sovversivo. Si avvertiva però una distanza, un distacco, se non quasi indifferenza. Ma forse era soltanto riserbo virile. Il fatto è che Roma era lontana, l’Italia era lontana, tutto sembrava lontano in quel paese incastonato tra i monti. Il maestro era arrivato in tempo. Non c’era soltanto da insegnare a leggere e scrivere ai ragazzi, c’era da essere anche – ma il cuore gli faceva dire soprattutto – messaggero di quell’Italia nuova che il Duce stava restituendo al mondo.

Com’era l’Italia che conoscevano i Bogliesi? Cominciò a fare qualche domanda in giro, in un primo tempo misurando la diffidenza. Parlavano poco di politica ed in questo si poteva dire che erano buoni fascisti: non aveva il duce messo in guardia contro le discussioni inutili che dalla critica portavano diritte al tradimento? Ma no, non avevano idee sovversive da nascondere, semplicemente trovavano fastidioso il parlare per niente. La retorica era una pianta che attecchiva poco, da Capanne in giù. Dicevano che volevano bene alla Patria e questo lo si vedeva anche dalle foto che i ragazzi portavano a casa da militare: petto in fuori, sguardo fiero che sembrava sfidare l’obiettivo. La scritta “Fedele alla mia Patria!” veniva però stampata d’ufficio dal fotografo assieme alla bandiera, colorata poi a china di rosso e di verde, nella foto ricordo del militare. E tutta questa fierezza che si leggeva nei loro occhi da dove veniva? Amor di Patria? Mah!

“Cosa vi hanno insegnato a soldato?” chiedeva. E si aspettava magari le solite risposte sull’ardimento e sul diventare uomo eccetera. Sorpresa, il servizio militare era per quei ragazzi una specie di vacanza dalle fatiche vere dei campi, con gite gradevolissime in luoghi lontani, dove la gente parlava tutto diverso e mangiava cibi esotici. La patria era bella ma piena di cose strane. E allora quella fierezza, questa misteriosa fierezza, il maestro scoprì che non si nutriva alle mammelle della turrita Italia – l’Italia veniva disegnata come una florida e bella signora, con in testa una corona con in cima tante piccole torri – ma piuttosto mangiava il suo pane di casa. Erano fieri di essere loro, non tanto di essere italiani.

gigio (21)Nel parlare con i più vecchi saltava fuori ben altro. L’Italia per loro era il monumento che il Comune di Ottone aveva piazzato davanti alla chiesa per onorare i caduti.
Eccola qua l’Italia vera: un elenco di nomi di morti ammazzati incisi nel marmo. Esserne fieri? Sono morti. Ancora più inquietante era poi l’altra lastra di marmo opposta a quella già scritta. Al momento era ancora bianca ma si capiva già che era bella e pronta ad accogliere nuovi nomi e nuova gloria. I mulattieri tenevano i contatti col resto del mondo e dicevano che tirava una brutta aria di guerra. Cosa c’era ancora? L’Italia era anche l’ufficio postale. Per ricevere lettere dal papà, dal fratello emigrati: “Qui stiamo bene, vi aspettiamo. Venite anche voi presto. In America si mangia.”

Si erano fatti da soli la loro elettricità, andavano per i paesi a tagliare la legna, andavano per i risi, andavano e tornavano dall’America, altro che isolati, i contatti col mondo ce li avevano, eccome. Il maestro, incapace di spiegarsi questo stare insieme di moderno e di antico, improvvisamente capì. Arrivò l’illuminazione. Non stava forse Mussolini costruendo la nazione contro tutti i passatismi e decadentismi borghesi? E non lo aveva fatto fondando le radici del potere in quanto di più grande e sacro ed antico poteva esserci, l’eternità di Roma? Moderno ed antico fusi insieme in un unico blocco di potenza e di gloria. Non era anche qui lo stesso? Progresso e tradizione lavoravano fianco a fianco, sopra il Boreca così come a Roma. Questo lo scrisse nelle lettere che mandò a casa, lo scrisse agli amici. Scrisse che, apparentemente confinato lontano dal mondo, era invece finito nel suo cuore pulsante, dove la storia la si faceva davvero nei gesti più umili e sacri. Non sappiamo cosa risposero quelli.

Le incombenze del maestro appena arrivato prevedevano lo scambio di cortesie con i maggiorenti locali. Sindaco, notaio e farmacista assenti giustificati – Ottone è sempre stata lontana – restava solo il parroco. E col parroco ci furono subito questioni di concorrenza.

Bisogna sapere che il Manifesto degli intellettuali fascisti – la vera bibbia di quelli che al Duce credevano sul serio – diceva con candida prosa che il carattere religioso del fascismo era assolutamente fuori discussione. Che il fascismo era una religione virile, intransigente, nettamente in contrasto con le pratiche molli e remissive che si insegnano dal pulpito. Che era una religione attiva, non lamentosa. Certo, poi c’era stato il Concordato che aveva ridato fiato ai preti, ma si capiva subito che era soltanto un’astuta mossa che la mente di Colui aveva escogitato per tenere a bada le tonache inquiete. Il maestro si preparò dunque alla visita al parroco raccomandandosi di tenere a bada le proprie intransigenze. Comunque per lui un buon cristiano doveva essere anche un buon fascista.

La visita al parroco, messe da parte le formalità con un bicchiere di vino che sapeva di selvatico, gli insegnò un sacco di cose. Intanto che il vino arrivava in paese portato sui muli dentro otri fatti di pelli di capra, cosa che ne spiegava il gusto, poi gli fornì tante notizie utili su usi e costumi della gente del posto. Da parte sua il maestro cercò di alzare il tono della conversazione e di volare più alto: cercò di spiegare al prete la sua grande intuizione, che cioè i nativi, nella loro sintesi di nuovo ed antico, erano da considerarsi quanto di più fascista ci fosse e che questo miracolo era del tutto spontaneo, nato senza libri, senza radio, senza niente.

Il parroco faceva fatica a nascondere la propria perplessità. L’anima bogliese, che aveva confessato ed assolto tante volte, per lui non meritava tanti panegirici. Con parole felpate fuori e durette dentro, fece il suo ritratto del paese visto dal pulpito. E ne uscì un giudizio senza assoluzione, anche se spesso fondato su spifferi del confessionale.

E’ del tutto ingeneroso questo giudizio, pensò il maestro del parlare del prete. Le parole che gli uscirono di bocca erano obiezioni altrettanto dure. I Bogliesi erano pietosi con i morti, non era essere cristiani questo? Erano soccorrevoli col vicino, si aiutavano secondo necessità, magari litigando e borbottando, e allora? In chiesa cantavano le lodi del Signore con voce spiegata, non era devozione questa? Volevano le processioni per invocare la pioggia ed il sole, ma non era questa la voce ingenua del bisogno, cantata dal popolo bisognoso? E’ vero, erano un poco tirchiotti con le monete della questua e con i cestelli di castagne e di uova, ma era questo un peccato così grave? Per il parroco peccato gravissimo: l’offerta di frutta e di pollame era prova incontrovertibile dell’attaccamento del gregge al suo pastore. E le oeve se le tenevano loro.

Eh sì, giudizi contrastanti. Il parroco rimproverava al maestro il troppo fantasticare, di confondere i pastori e i contadini di qui con quelli buoni e miti incontrati traducendo Virgilio. “Grande è il fosso che separa la letteratura dalla realtà: guardate questi giovinetti – all’epoca usava il voi – vi sembrano miti? Non li ha mai visti litigare?” In effetti i ragazzi quando se le davano, se le davano di santa ragione e con metodo, regolando i loro contenziosi con fionde, sassi e bastoni. E continuava ancora il prete: “I vostri libri raccontano di pastori e pastorelle che distesi nei prati parlano d’amore, aspettando il tramonto e a tempo perso soffiando nello zufolo. Qui a Bogli grandi e piccini vanno sui monti con la falce al posto dello zufolo e i prati li tagliano, non ci si sdraiano sopra e si svegliano a certe ore che l’alba l’aspettano per un po’. Scordatevi i vostri bei libri”.

La falce di quelli di Bogli era famosa in tutto il mondo conosciuto. Nessun altro nei paesi vicini li eguagliava nel tagliare la legna e tosare prati, tanto erano precisi e svelti.11182119_1589427514672616_6740888708596534342_n Dove adesso sono cresciuti alberi e alberi, allora c’erano pascoli che, come si vede nelle fotografie del tempo, erano perfettamente curati. Non un filo d’erba sfuggiva alla falce. L’erba, ogni filo d’erba, era prezioso nutrimento per le bestie – mucche, capre e somari – da cui dipendeva cibo e trasporto dei nativi. Poi, magari senza zufolare, anche loro come gli antichi nei prati parlavan d’amore. Vero è che l’erba tagliata corta rendeva difficile la riservatezza nelle discussioni più animate, ma riuscivano a capirsi lo stesso.

Convenuto che la scarsezza di uova, verdure e frutta nei cestini di ringraziamento ed omaggio era faccenda certamente critica anche per lui, che doveva campare col suo stipendio magretto, il buon maestro si rese però conto in fretta che se i nativi poco davano, anche poco avevano ricevuto. Ad un primo inventario la scuola – al pianterreno dell’unica casa in paese costruita con mattoni e cemento, un’aula per tutte le cinque classi – era tutto un vecchiume. Banchi, lavagna, tutto l’arredamento era vecchio e fatiscente. Non c’era la radio. La legna, ogni allievo portava il suo pezzo per scaldare la classe. Come poteva la Patria pretendere se aveva dato così poco?

Forte di una determinazione incrollabile, il maestro decise di passare all’azione. Scrisse e riscrisse, scomodò eccellenze e signorie vostre e, finalmente, ecco arrivare in paese lavagna e banchi di scuo
la, quaderni e sussidiari. E anche divise per Avanguardisti, Balilla e Piccole Italiane. Arrivò anche la prima radio. L’anno scolastico poteva partire in bellezza, una volta recuperati gli allievi, più inclini a seguire le bestie ai pascoli o a correre dietro a un pallone fatto di stracci.gigio (13)

E’ vero che prima ancora che scolari, a dispetto di tutti gli obblighi, quei ragazzi erano lavoratori a tutti gli effetti, tanto che gli stessi orari delle lezioni variavano a seconda delle incombenze agricole. La scuola poteva cominciare alle dieci, al ritorno dai pascoli e durare sino all’una. Per riprendere poi nel tardo pomeriggio.

Il maestro si seppe in fretta conquistare i suoi ragazzi. Intanto bastava la sua autorità e non aveva bisogno di ricorrere alla bacchetta, come invece la pedagogia dell’epoca consentiva e che altri maestri e maestrine usavano senza scrupoli. La bacchetta al maestro Maffoni serviva per indicare cifre e parole sulla lavagna, non come corroborante per la memoria. La memoria la si esercitava ripetendo e ripetendo litanie di tabelline.

C’era però la questione del dialetto. Se anche i ragazzi imparavano in fretta a sostituire le espressioni dialettali con le corrispondenti in lingua italiana, la dizione era un disastro. I Bogliesi si mostravano del tutto incapaci di pronunciare correttamente la ‘zeta’, che il parlare locale aborriva e trasformava in ‘esse’ sonora, come la esse di casa. E siccome al maestro piaceva la poesia, e gli piaceva soprattutto recitarla ad alta voce, assaporandone i suoni, questa zeta/seta sembrava un ostacolo insormontabile. Per qualche tempo recitare D’Annunzio si rivelò un calvario. I ragazzi – perché era loro che dovevano ripetere – si stancavano e sbuffavano. Alla fine però anche l’italica zeta finalmente timida uscì dalle loro bocche paesane. Anche se, fuori di classe, taci, il maestro veniva mandato chi sa dove, chi sa dove.

Poi però veniva il sabato pomeriggio. Smaglianti nelle loro divise nuove, ragazzi e ragazze marciavano per il paese e a volte si recavano sino ai paesi vicini, Artana e Belnome, cantando inni festosi e travolgenti. Cantavano Giovinezza e Fuoco di Vesta, che piaceva moltissimo. Sembrava quasi di sentirlo scoppiettare quel fuoco, nelle loro bocche.

Persuaso che le giovanissime generazioni erano ormai conquistate alla grandezza dell’idea fascista, come indubitabilmente dimostrava l’entusiasmo con cui, a passo di marcia, il sabato pomeriggio uscivano di scuola per andare a sfilare, il Maestro Maffoni si accinse all’impresa più difficile: conquistare il cuore degli uomini, degli adulti, costringendoli a riconoscere in se stessi quella eredità romana, sin qui ignorata dal mondo, che avevano così misteriosamente conservato nel loro sangue. L’Impero era tornato a vagire sui colli fatali di Roma ed anche a Buj doveva far sentire la sua voce. Non potevano esserci cuori retrivi al richiamo del Duce.

Le iniziative propagandistiche sono solo parole, si sa, e il maestro aveva imparato ad evitare le sparate più grosse, trattando con gente che le parole le pesava e guardava ai fatti. La radio fu un grande successo. Ad ascoltare i discorsi del Duce venivano non tantissimi, più curiosi che entusiasti, ma le radiocronache delle partite di calcio riempivano l’aula e altra gente ascoltava fuori, seduta sui gradini. “Amici italiani in ascolto qui è Nicolò Carosio che vi parla e vi saluta”.001 E’ qui che la leva calcistica bogliese imparò i nomi degli eroi da emulare. Ora bisognava andare oltre.

L’ostilità della Società delle Nazioni, che aveva obbligato l’Italia ad una economia autarchica, aveva costretto gli italiani a cambiare molte abitudini. Non aveva invece toccato i Bogliesi, che l’autarchia la praticavano da sempre, facendosi tutto per conto loro. Ecco, ancora una conferma che quel paese non solo era al passo coi tempi, ma li precorreva perfino, si disse il maestro.

“Il popolo che ha un impero deve fare da sé”, era uno degli slogan che la propaganda di quel periodo stampava sui manifesti, e tra le cose che mancavano e bisognava procurarsi c’era anche il legname da costruzione, di cui l’Italia era carente.

Il regime fascista si era occupato sin dagli inizi di favorire il rimboschimento dei bacini montani, mettendo a carico dello stato le spese di sistemazione. In quel 1937 – pardon, anno XV E.F. – dappertutto in Italia era un fervore di iniziative autarchiche. Così era stato rinnovato l’appello a rimboschire con l’aggiunta di un tot di propaganda. Non si piantavano più soltanto boschi, bensì Boschi dell’Impero, in omaggio alla recente conquista dell’Etiopia. Si trattava di piantare alberi di qualità, alte conifere provenienti dalle alpi più gagliarde. Col tempo sarebbero cresciuti alberi che avrebbero fatto nascere segherie, dato lavoro ai giovani e a tutti avrebbero ricordato che tutto ciò era dono dell’Impero.

Boschi dell’Impero venivano piantati a Bruggi e persino a Pietragavina, sopra Varzi. Il Corpo Forestale, da poco militarizzato, rispondeva in fretta alle richieste di piante. Ecco cosa a Bogli mancava: anche Bogli doveva avere il suo Bosco dell’Impero e alla svelta. Ai paesani l’Impero poteva ancora sembrare cosa astratta e lontana, ma il bosco era legna, cosa concreta e benefica. L’Idea diventava materia viva. Il maestro decise.

Convocato ad assemblea nel dopolavoro, il buon popolo bogliese oppose alla nuova pensata un blando consenso ed alcune sentite obiezioni. Insomma, loro i boschi ce li avevano già, giù a fiume. “Questi noci e castagni non servono alla grandezza della Patria, non ci si costruisce nulla di buono con questa legna!” E quelli a dire che noci e castagne si mangiano. H0000042“Questi faggi ed asburni sono legname vile, roba scarsa!” Sono buoni per fare zappe e comodini, e anche carbone e bare all’occorrenza, opponevano quelli. Niente, il maestro non voleva mollare, il Bosco si doveva fare punto e basta. “Non dovrete spendere nulla, portano qui alberi di prima qualità e gratis, cosa volete di più?” L’argomento di non dover spendere nulla si rivelò invincibile e tappò tutte le bocche.

Si trattava ora di stabilire dove il Bosco dell’Impero doveva essere piantato. Su quel punto il buon popolo di Bogli aveva già capito che si trattava di scegliere su quale piede tirarsi la zappa. Se si spiantavano i boschi di sotto per piantare ste conifere al posto dei castagni, voleva dire niente castagne da mangiare. Se il Bosco si mangiava l’erba dei pascoli, che erba avrebbero mangiato le bestie? Questa era la questione.

Dopo aver lodato la solerzia e la generosità del governo, le menti più fini del paese deliberarono quella che per loro era la soluzione più giusta: bisognava piantare i pini lassù ai Sternai, vicino ai Grepai, che quello era proprio il posto più adatto. Una bellissima radura che gli alberi avrebbero nobilitato. “Ma lì ci sono soltanto pietre!”, obiettò cautamente il maestro. “Giusto, le piante cresceranno in mezzo alle pietre, e cresceranno tranquille, tanto lì non ci portiamo le bestie a pascolare, che è pericoloso.” “Ma non è che in mezzo a quelle pietre le piante non riescono ad attecchire?” chiese il maestro perplesso. “Oh no, sono piante robuste quelle che ci manderanno dalle Alpi rocciose. Attaccano attaccano”. Il maestro continuava a non essere troppo convinto ma non poteva ribattere a chi in mezzo ai boschi ci era nato e ci trafficava da generazioni. Poi si alzò una voce che disse: “Il posto giusto è proprio ai Sternai, perché se lo si mette da un’altra parte non lo vede nessuno. Lì, lo vedono da ogni casa del paese, lo si vede da Suzzi e persino da Pizzonero”. Argomento definitivo: la propaganda non si fa per tenerla nascosta… E così Sternai fu.

Tornato a casa – abitava al piano di sopra alla scuola – il maestro prese carta e penna e scrisse ad altre eccellenze, ad altre signorie vostre per fare arrivare in fretta il suo bosco. In poco tempo ebbe conferma che i suoi alberi sarebbero arrivati.

Quell’inverno fu un inverno mitissimo, secco e soleggiato. A febbraio dell’anno nuovo – i paesani si ostinavano ad usare il vecchio calendario e non quello fascista – i ragazzi vennero mobilitati per andare lassù a scavare le buche che avrebbero accolto gli alberelli.

Le piante arrivarono a fine marzo ma, sradicate chissà dove e spedite con poca terra attaccata alle radici, nel lungo viaggio prima in treno poi sul camion e infine sulle slitte, avevano patito assai. Arrivarono alla fontana quasi moribonde. Qui i paesani, non senza commiserazione, fermarono le slitte e, dopo un rapido consulto, tuffarono gli alberelli nell’acqua, confidando nel suo potere vivificante. “Dovevano bagnarle alle radici, durante il viaggio – dicevano – forse adesso è tardi, ma cosa volete che sappiano i ferrovieri…”.

Dopo i primi soccorsi, le piante si fecero un altro tragitto all’insù ed arrivarono sul posto. Ragazzi e ragazze in divisa, tutti cantarono Giovinezza e Fuoco di Vesta. Ma non tutti erano convinti: l’inverno era stato secco e le piante erano troppo grosse, difficile che attecchissero. Comunque, finita la festa e finito di cantare, ciascuno fece ritorno al suo mestiere.

Il bosco appena piantato deperiva. Dopo qualche tempo pochi erano gli alberi che ancora mostravano segni di vita. Ciascuno secondo il proprio eroismo, si sforzavano di resistere al nutrimento di sassi. L’Impero invece s’ingrandiva: anche l’Albania era italiana. I ragazzi richiamati sulla Quarta Sponda (bisogna contare: uno Ligure e Tirreno, due Jonio, tre Adriatico, quattro ancora Adriatico ma visto dalla parte di là) cominciavano a sentire fischiare le pallottole. Bello l’Impero, ma il militare aveva smesso di essere una vacanza. Le mamme ancora speravano che con l’Albania la guerra finisse lì. “Ghemo l’Impero, ghemo anche er Busco de l’Impero – dicevano con l’aria di chi ha già dato e non vuole essere più importunato – un po’ di quete ova!” E invece i Tedeschi altro che quete, subito a ricominciare la giostra.

Con i giovani a soldato, i vecchi dovevano faticare di più ma in compenso c’erano meno bocche da sfamare, e che boccucce!

Le piante oramai erano tutte secche. Dal paese guardavano in su, guardavano il fatidico bosco e scuotevano la testa. Quando di lì a poco Mussolini dichiarò l’Italia paese non belligerante, fu grande gioia. Tutti andarono in chiesa a pregare con devozione sincera. Persino le parole del parroco, che trovò modo nella predica di parlare della grandezza d’Italia, sembrarono più che altro vibrare dell’entusiasmo per lo scampato pericolo. In paese le vicende dei fronti lontani venivano ormai commentate come se fossero un evento sportivo, “tanto noi siamo fuori”. Se era d’obbligo fare il tifo per i tedeschi, non mancava chi invece ricordava come, nel primo tempo di questa guerra infinita, contro i crucchi si era sparato contro. Giovinezza giovinezza! Coerenza coerenza. Ma gli alberi lassù erano di cattivo augurio.

Infatti successe quello che tutti speravano non dovesse succedere: l’Italia decise di farla fuori col resto del mondo. Palla al centro. Neanche il tempo di ordinare la squadra che i nemici bombardavano Genova, come dire il retrobottega di Bogli. Dal paese si vedevano le luci dei riflettori che cercavano in cielo gli aerei nemici. Si vedevano i bagliori causati dalle bombe e dopo un poco si udivano gli scoppi, come in un brutto temporale

Il parroco la domenica, alla predica, lasciò un po’ stare la devozione e il decoro e il pudore. Parlò invece dei figli e dei padri lontani e pregò, e pregarono tutti, di vederli tornare in fretta. Accortosi però che il tono dimesso poteva farlo passare per disfattista, si lanciò in un discorso che ripeteva quel che scrivevano i giornali. E tirò fuori la Patria tradita e i perfidi inglesi e poi, ecco qua, disse che l’Italia poteva contare sui suoi ‘intrepidi figli’. Grande fu l’imbarazzo della navata: a Bogli ‘intrepido’ è come dire intrego, disabile. Dopo il “missa est” la gente uscì di chiesa con quell’ ‘intrepido’ in testa, e non sapeva se ridere o piangere, ma tanto non c’era il maestro a spiegare le parole. Anche lui era stato chiamato soldato. Ad ogni buon conto le donne, dopo essersi segnate in chiesa, si segnarono ancora davanti al monumento ai caduti. Gli uomini borbottavano: “Intrepidi, semo a posto”.

La gente aveva pregato con fervore per le sorti dell’Italia, ma le preghiere avevano sortito poco. Dappertutto l’Impero perdeva i pezzi: in Africa e di là dall’Adriatico. E pregava anche senza il suo prete, perché anche don Silvio aveva dovuto seguire l’esercito e si era fatto la sua bella scarpinata in Russia. Il Bosco dell’Impero oramai era morto da un pezzo. Gli aghi profumati erano cascati giù che era una malinconia e rimanevano i nudi stecchi.

La gente, passando di lì, si portava a casa le ramme, che tanto pendevano secche e facevano brutto. Poi, quando l’impero fu ristretto a mezza Italia e i ragazzi cominciarono a tornare a casa dopo l’8 settembre, un po’ per bisogno un po’ perché tanta reverenza oramai non c’era più, si arrangiarono a portarsi giù anche i tronchi, belli secchi oramai, che finirono nelle stufe e nei forni.

La legna scoppiettava gagliardamente mentre i ragazzi cantavano Fuoco di Vesta.Paesaggio2